L’assetto urbanistico dell’antica Lupiae, La Lecce romana, è ancora oggi oggetto di studio. La continuità di vita dell’abitato non consente di intervenire con uno scavo archeologico estensivo, come in altri comuni del Salento. Ma è nei cantieri che si aprono per interventi di varia natura nelle piazze, strade, edifici pubblici e privati della Città, che l’archeologo trova il modo di mettere in luce e documentare frammenti del grande patrimonio archeologico che giace sotto i nostri piedi.
In passato le tracce dell’abitato antico e delle mura non sollecitarono l’interesse degli studiosi quanto la scoperta del teatro, dell’anfiteatro o delle tombe.
Molte testimonianze archeologiche furono distrutte, sepolte e nuovamente dimenticate. L’abitato di Lupiae fu probabilmente oggetto di una radicale trasformazione tra il I secolo d.C. e il II secolo d.C. In questo periodo furono edificati l’anfiteatro, il teatro e il porto di S. Cataldo, solo quest’ultimo attribuibile con certezza all’imperatore Adriano.
La viabilità presistente venne resa ancora più efficiente, garantendo alla Città un ruolo di primo piano nel controllo del territorio e dei commerci. La risistemazione urbanistica coinvolse anche alcuni tratti della cinta muraria di età messapica che, come desumibile dagli scavi di Cosimo De Giorgi, sembra modificare il proprio tracciato nell’area dell’anfiteatro. La necropoli e lo stesso anfiteatro furono collocati all’esterno delle mura lungo i principali assi stradali. Le abitazioni, i luoghi di culto identificati dalle numerose iscrizioni e il teatro, risultano invece all’interno della cinta difensiva.
L’anfiteatro dominava l’area a nord e a est della città, in un punto di confluenza delle vie che collegavano il centro abitato al territorio circostante, in particolare Brindisi a nord e il porto di S. Cataldo a est. L’impatto scenico del grande edificio, per lo spettacolo, doveva risultare impressionante al viaggiatore, giunto alle porte della città. Tutto intorno all’anfiteatro, l’area era organizzata con un impianto regolare e scavi recenti hanno evidenziato la presenza di impianti produttivi.
Nel XII secolo, secondo un’interpretazione di un passo di Guidone, l’anfiteatro, seppur in stato di abbandono, sembrava fosse ancora al centro dell’abitato medievale. Nel XVI secolo, il volto di Lecce fu trasformato da una radicale riorganizzazione urbana. Tuttavia, le mura cinquecentesche si sovrapposero per lunghi tratti a quelle romano-messapiche e, all’interno della città, è possibile notare come l’allineamento di molti edifici non segua il ridisegnato impianto di età barocca ma le antiche delimitazioni dell’abitato di età romana.
L’Arco di Prato, nell’omonima piazzetta, prende il nome da Fra Leonardo Prato, un illustre capitano dell’Ordine dei Cavalieri Gerosolimitani, vissuto tra il XV e il XVI secolo, la cui nobile famiglia era di origine leccese.
Egli si distinse nel 1479 a Rodi, nella battaglia contro i turchi e intervenne proficuamente qualche anno dopo nel patteggiamento delle condizioni della pace con il Pascià. Fu a lungo al servizio degli Aragonesi ed ebbe un ruolo di primo piano nelle vicende dell’assedio della città di Taranto, alla fine del XV secolo.
Sotto gli Aragonesi ottenne numerosi privilegi, tra cui il diritto di asilo nella sua casa. Schieratosi con la Repubblica di Venezia, gli fu affidato il comando della Cavalleria durante la guerra contro i francesi, a fianco del Pontefice. Morì nella battaglia di Bellaere e il suo corpo fu trasportato nella Chiesa dei SS. Giovanni e Paolo a Venezia dove, per volere della Serenissima, fu realizzata sulla sua tomba una scultura equestre in suo onore.
La profonda arcata che anticipa l’accesso al Palazzo Prato a Lecce è affiancata sul prospetto principale da due slanciate paraste e, in tono celebrativo, presenta scolpiti sui pennacchi gli stemmi dell’illustre famiglia Prato, attualmente poco leggibili. Altri elementi decorativi sono costituiti da un’elegante voluta inserita al centro dell’Arco e, nella parte superiore, da una balaustra in cui cinque balaustrini sagomati si alternano ritmicamente a piccoli pilastrini a sezione quadrata. Il Palazzo Prato, a cui si accedeva dopo aver attraversato la breve galleria, fu costruito secondo canoni dell’architettura militare: monumentale nelle proporzioni e essenziale nell’aspetto.
A dominare la piazza e a darle il nome (dal 1871), è la celebre colonna votiva sormontata dalla statua raffigurante il protettore principale della Città, Sant’Oronzo. Nel 1656, quando in tutto il Regno meridionale dilagò lo spettro della peste, dalla quale Lecce e la Terra d’Otranto vennero miracolosamente risparmiate, il popolo e tutto il Clero leccese ritennero che l’evento miracoloso fosse dovuto all’intervento del Protovescovo della Città, Oronzo, il cui culto a Lecce, assieme a quello di Giusto e Fortunato, risaliva a tempi molto più antichi. Il rilancio del culto del Santo fu gestito allora in prima persona dal Vescovo Luigi Pappacoda (1639-1670), che lo sanzionò con decreto ufficiale il 13 luglio del 1658 e Sant’Oronzo andò così a prendere definitivamente il posto di Sant’Irene, fino ad allora patrona della Città. Quali segni tangibili della gratitudine della cittadinanza verso il Santo, vennero fatti erigere sia il Duomo (pure dedicato a Sant’Oronzo) sia questa colonna votiva (alta 29 mt. circa) la cui realizzazione fu affidata al celebre architetto leccese Giuseppe Zimbalo.
Per costruire il fusto della colonna, la Città di Brindisi offrì, in segno di devozione, i sei rocchi di marmo cipollino africano di una delle due colonne romane che, posta a segnare l’inizio della via Appia, era crollata nel 1528.La colonna romana era di tale valore simbolico per la comunità brindisina che, causa l’indecisione dei sindaci che si avvicendarono, intercorse molto tempo prima che il dono giungesse effettivamente a Lecce.
La benedizione della prima pietra, infatti, avvenne nel 1666, ma i lavori veri e propri di innalzamento della colonna ripresero solo diversi anni dopo (1681) per essere ultimati nel 1686. Lo Zimbalo provvide a costruire il basamento in pietra, ad animarlo di una balaustra e statue oggi perdute, a rastremare i rocchi e a porli in opera insieme con un nuovo capitello, finemente decorato, per la base del quale adoperò quello decorato dell’antica colonna. La statua di Sant’Oronzo, realizzata a Venezia, fece il suo trionfale ingresso in piazza con una solenne processione il 9 luglio del 1685 e fu collocata sulla colonna con grande giubilo della cittadinanza.
Nell’agosto del 1737, proprio durante i festeggiamenti che si tenevano in onore del Santo, la statua fu danneggiata: ne fu ordinata una seconda, anch’essa a Venezia, dove venne realizzata su disegno di Mauro Manieri, per poi essere ricollocata sulla colonna della piazza nel 1739. La statua lignea (alta 5 mt. circa, di recente restaurata), rivestita di rame, ritrae il Santo come di consueto, con abiti vescovili, con il pastorale e la mitria, in atto di benedire solennemente la Città. Nel 1901, in seguito alla scoperta dell’Anfiteatro, l’assetto dell’antica piazza dei mercanti venne cambiato e la colonna fu spostata dove ora si erge. Al 1945 risale, invece, il rifacimento totale del basamento, su tre lati, del quale vennero ricopiate le antiche iscrizioni seicentesche che erano state apposte sull’originario, in ricordo della costruzione della colonna e della donazione fatta dai brindisini.
Il Teatro Paisiello sorge sull’area del precedente edificio che nel 1758 due nobili cittadini leccesi, Gaetano Mancarella e Francesco Antonio Bernardini avevano fatto costruire affidando il progetto all’ingegnere Giovanni Pinto. Il più antico Teatro Nuovo, che dal 1810 dopo ampliamenti e restauri prende il nome di Teatro San Giusto, fu ceduto nel 1867 al Comune che provvide a demolirlo per realizzare l’attuale edificio, affidando il progetto agli ingegneri Oronzo Bernardini e Enrico De Cataldis. Il teatro, dedicato al musicista tarantino Giovanni Paisiello, fu inaugurato nel dicembre del 1870 con la rappresentazione dell’opera “Il ballo in maschera” di Giuseppe Verdi.
La facciata, con motivi di chiaro gusto neoclassico, è scandita in due ordini distinti da una cornice marcapiano. La parte inferiore, a bugne lisce, presenta nel corpo centrale tre arcate a tutto sesto con la chiave dell’arco sporgente. Le lunette, sopra le porte laterali, sono fregiate con strumenti musicali tra foglie di alloro, mentre quella centrale presenta un espressivo mascherone. Nella parte superiore, tre finestre a balconcino si alternano a coppie di paraste con capitelli in stile ionico. Ogni finestra è inquadrata da stipiti e architrave lineari, mentre al di sotto del davanzale si susseguono balaustrini dal profilo geometrico alternati al basamento delle paraste.
Al di sopra delle finestre laterali si inseriscono riquadri con motivi decorativi che alludono alla destinazione d’uso dell’edificio, mentre sopra quella centrale c’è l’iscrizione “Teatro Paisiello 1870”. Sul lato destro, in posizione arretrata, c’è un corpo di fabbrica in cui è presente, nella parte inferiore, l’ingresso secondario e, nella parte superiore, una finestra. Il piccolo teatro, con soli trecentoventi posti a sedere, presenta una pianta a ferro di cavallo con tre file di palchi e la galleria. Dal foyer rettangolare si accede ai palchi per mezzo di due scale ricavate in uno spazio alquanto ristretto.
L’interno è impreziosito da elementi decorativi realizzati da maestranze napoletane e salentine, tra cui si distinsero lo scenografo e ornamentista Onofrio Migliardi che dipinse lo scenario e Ferdinando Martina che realizzò l’orologio al centro dell’arco scenico. Il soffitto fu dipinto dal pittore napoletano Vincenzo Paliotti che ripropose figure allegoriche quali l'”Armonia” incoronata da un genio, la “Tragedia” con la tripode fumante e il pugnale, la “Commedia” e le “Grazie”, mentre le “Allegorie del Giorno e della Notte” furono dipinte nelle lunette dell’arco del proscenio. L’allestimento dei palchi fu affidato alla ditta milanese Falardi, mentre la ditta napoletana De Franceschi e Robiony eseguì alcune decorazioni del proscenio e gli intagli e le dorature dei parapetti dei palchi. Entro due nicchie del foyer sono collocati due busti marmorei dei musicisti Giovanni Paisiello e Leonardo Leo realizzati dallo scultore Achille Bortone.
L’assetto urbanistico dell’antica Lupiae, La Lecce romana, è ancora oggi oggetto di studio. La continuità di vita dell’abitato non consente di intervenire con uno scavo archeologico estensivo, come in altri comuni del Salento. Ma è nei cantieri che si aprono per interventi di varia natura nelle piazze, strade, edifici pubblici e privati della Città, che l’archeologo trova il modo di mettere in luce e documentare frammenti del grande patrimonio archeologico che giace sotto i nostri piedi.
In passato le tracce dell’abitato antico e delle mura non sollecitarono l’interesse degli studiosi quanto la scoperta del teatro, dell’anfiteatro o delle tombe.
Molte testimonianze archeologiche furono distrutte, sepolte e nuovamente dimenticate. L’abitato di Lupiae fu probabilmente oggetto di una radicale trasformazione tra il I secolo d.C. e il II secolo d.C. In questo periodo furono edificati l’anfiteatro, il teatro e il porto di S. Cataldo, solo quest’ultimo attribuibile con certezza all’imperatore Adriano.
La viabilità presistente venne resa ancora più efficiente, garantendo alla Città un ruolo di primo piano nel controllo del territorio e dei commerci. La risistemazione urbanistica coinvolse anche alcuni tratti della cinta muraria di età messapica che, come desumibile dagli scavi di Cosimo De Giorgi, sembra modificare il proprio tracciato nell’area dell’anfiteatro. La necropoli e lo stesso anfiteatro furono collocati all’esterno delle mura lungo i principali assi stradali. Le abitazioni, i luoghi di culto identificati dalle numerose iscrizioni e il teatro, risultano invece all’interno della cinta difensiva.
Il teatro della città fu messo in luce durante gli scavi effetuati in città in età fascista alle spalle del Convento di Santa Chiara. Della struttura originaria è conservata solo una piccola parte costituita dall’orchestra, dal banco roccioso sottostante il palcoscenico ligneo, e dalla parte più bassa delle gradinate (ima cavea). Al momento dello scavo la struttura subì alcuni restauri che si distinguono ancora oggi chiaramente.
I numerosi elementi decorativi della struttura, realizzati in marmo, tra cui una statua loricata acefala identificata come un’immagine dell’imperatore Augusto, sono conservati al Museo Provinciale Archeologico “Sigismondo Castromediano” e, in parte, al Museo del teatro Romano.